La fiaba di RUGGIÀ CONTRO LE OMBRE di NINO VELOTTI
Quelle ombre che si intrufolano a sera
dagli alti rami d’alberi morenti,
ombre in penombra per quell’aria nera,
mentre sulla scacchiera gli astri lenti
girano e spande la luna il suo alone…
Coni d’ombra, ombre nette, ombre taglienti
di quei corpi vaganti oltre il balcone,
fuori dall’atmosfera; le ombre amiche
su letto tra i cuscini di cotone,
traghettatrici dell’ozio e di Psiche,
morbidi impedimenti della Luce;
le ombre vive di paure, tue nemiche
che non vivon di Luce, controluce
non vengon conformate ai loro schermi,
piccole a mezzogiorno se riluce
il sole ortogonale in luoghi fermi,
più scure nei chiarori, molto in ombra,
ombre delle ombre lungo strade ed ermi
castelli nella notte. Sì, s’ingombra
d’orrore il cuore a ricordarle ancora…
Ombre crudeli che rubano all’ombra
bimbi e animali, assenza che divora
avvolgendoti l’anima sua preda,
che occulta, nega agli occhi chi va e ancora
resta ma non sai dove… Ci conceda
di proseguire il racconto l’insieme
delle Muse e la prole di chi seda
dal quotidiano reale, d’Ipno assieme
a Morfeo ed Ícelo il figlio Fantaso,
che le cose anima e svegli fa insieme,
sembra, sognare e divertire – è il caso
di dire che il secondo, il Fobetore [1]
più spaventoso, sia stesso lui un vaso
dispensatore d’ombre di terrore,
quali le nostre in questa nuova fola,
questa nuova avventura di stupore
di Ruggià… Questa volta, una parola
critica della nonna, se ne stava
tornando a casa da solo – si immola
al suo orgoglio fuggendo. Già avanzava
sulla strada extraurbana, le piastrelle
contando a terra, le stesse che urtava
nel corridoio di casa con rotelle
di pattini stridenti – desiderio
mai appagato, poiché due tristi belle
pattine lui doveva calzar serio
sul pavimento a cera lucidato,
in verità. Pensava al putiferio
per lui scomparso che avrebbe gravato
a casa della nonna in quel paesino
distante dalla sua città, turbato
ma lieto nel coraggio: quel bambino
ormai sparito forse avrebbe avuto
il giusto peso, eluso un assassino
forse sarebbe stato benvoluto,
compreso per quel suo essere un po’ strano,
in pausa riflessiva ed avveduto,
autistico nell’estasi o sciamano?
Faceva astrusi intrugli con i succhi
d’erbe varie, curando – ahimè invano –
il limone malato coi suoi mucchi
biancastri di pidocchi nella viuzza
a fianco al suo palazzo. “Fa’ risucchi
verdi nella siringa, sì, tagliuzza
la corteccia e poi vai con l’iniezione!”
gli aveva detto, con quella pagliuzza
luccicante nell’occhio – alta lezione
di botanica – Planto, il giardiniere
con gli avambracci monchi: una torsione
ramificante di vene guerriere,
ed ecco come radici nell’aria
forme di polsi e mani giocoliere!
Una vera creatura visionaria
costui, dal pollice verde effettivo…
Andava sulla strada solitaria
attento coi piedini al suo obiettivo:
metterli nei riquadri macchiettati
delle graniglie di marmo, giulivo
con salti a tratti. Su ceppi di andati
platani in gruppi fucsia la formica
formante frecce, dei comunicati
mobili, qualche bella scritta amica,
durante il viaggio a Ruggià era di aiuto;
memoria topografica, un’antica
abilità nell’orientarsi e fiuto
non gli mancavan comunque. Un percorso
consueto quello: se n’era pasciuto
con la vista dall’auto sua nel corso
degli anni, indietro lui coi suoi davanti.
Ma il paesaggio sembrava ormai trascorso,
diverso, con le case non distanti
tra di loro, quei flosci, amorfi ammassi,
aggrovigliati tubi fiammeggianti
che esalavano fumi, materassi
e alte poltrone per viandanti stanchi…
Salì su una di queste, poi i suoi passi
riprese e si diresse verso i granchi
giganti scintillanti nel parcheggio
sull’altra sponda della via, lì a branchi
di ferro accanto ad un videonoleggio
nell’area sosta. Attraversa la strada
scansando grosse buche in un solfeggio
di clacson, poi raggiunge il bar Nevada;
lì una donna gli viene lenta incontro:
“Sei tu Ruggià? Ti porto questa spada
di luce, grazie a cui tu nello scontro
con le Ombre vincerai.” La strana donna,
con un fitto velame fluente contro
un vento caldo e con l’occhio che assonna,
continuò: “A casa non tornerai senza
siffatta prova superata.” “Donna,
non so di cosa parli, che emergenza
intendi. Torno a casa, non do impiccio,
un bravo bimbo senza residenza
qui io sono, solo in viaggio per capriccio;
la nonna mi ha sgridato, non ho colpa,
lei sentirà la colpa del pasticcio
della mia assenza. In tutti questa colpa
albergherà per avermi capito
e amato mai abbastanza.” “Sai, la polpa
della vita è che ognuno è solo, unito
soltanto al proprio corpo. Invecchierai,
ci sarà un vecchio bimbo rattrappito
al posto tuo, ma mai tu capirai
chi ti sta intorno e chi tu sei davvero.
È un sortilegio assurdo, però mai
nessuno ha recepito il senso vero
di stare al mondo. Tutti interpretiamo
tutto senza capire mai davvero.
L’amore poi, così noi ci inganniamo:
tra gli amanti c’è sempre discordanza,
chi amiamo ci ama mai? Come mi chiamo,
penserai, chi è costei, che ridondanza,
frode d’organza, e che prosopopea!
Ma la rinuncia all’amore è mancanza…
Verità è il nome mio. Quasi in apnea
resto per via dei veli. Scapperesti
se mi vedessi senza la marea
tessile: pelle e carne sopra questi
organi interni – guantata sul petto
la man portò – gelatina diresti,
tanto son trasparenti. Ma mi accetto
per come sono. Son io che ti porto
la Luce. – Si intravide nel suo aspetto
qualche osso, un dente, mossosi un riporto
di stoffa. – Caro, lungo questa via
farai altri incontri, cambierà l’importo
del tempo, ci sarà quest’anarchia
delle stagioni terrene, – un bel gelo
brusco si percepì – sarai in balia
delle Ombre; piu di un pallido asfodelo,
però, puoi rifiorir se muti in forza
la paura. Il Fato, sì, per tutti anelo
a ciò, ci assista!” Da simile scorza
un po’ turbato, Ruggià si rimise
in viaggio: allontanandosi si smorza
una triste canzone estiva. Rise
anche, senza motivo. Ferragosto
in città adesso sembrava: ormai intrise
di solitudine in un grande arrosto
di sole intorno le cose. Miraggi
quei cani nella nebbia d’afa, e agosto
non era, ricordava così. Raggi
di sole ora filtravan dalle foglie
d’alberi altissimi, forse dei faggi.
Ma a terra lì non erano aghifoglie?
Era in un viale con l’usa memoria
di quanto Planto insegnava. Distoglie
lo sguardo dalle piante la traiettoria
di una foglia seguendo: le sue mani
più da grandi ora sembrano, una storia
che non ricorda celano, le mani
di suo nonno rimembrano. Poi tocca
quella spada al suo fianco, le sue mani
si fanno diafane, quindi si blocca
a guardare quel branco di animali
che attraversa la strada. Ormai trabocca
di foglie il viale, come gli autunnali
torrenti d’acqua; pensa che è un po’ larga
la cinta con la spada dentro. L’ali
di un drago nota incise ed una targa
in latino sull’elsa di quel brando
datogli dalla tizia con la larga
cappa di veli – sul volto anche -, quando
quegli animali gli passano accanto.
Ne riconosce vari: Tobia, Nando,
l’oca Brigitte, Macchiolina, Incanto,
Zorro il bassotto nero, Bartoluccio,
Alfredo, Thunder, Robin, Polly accanto
a un pappagallo fiera in un cantuccio,
forse quello di Felix, cani e gatti
lenti e pacifici e senza alcun cruccio
in un corteo felice… Adesso a tratti
le foglie sembrano cadendo i tasti
di un pianoforte pigiare: c’è, infatti,
nell’aria creata da dolci contrasti
di molte note che melodia bella!
Sì, Ruggià si commuove ai mesti fasti
di tanto amore. C’è Immacolatella,
quella che accarezzava al suo ritorno
da scuola: tra le sbarre furfantella
portava quel musetto fuori, intorno
al suo giardino guardando villette
basse come la sua. Così da un forno
d’isolamento gli rubava strette
coccole… Tutti che andavano lieti,
nessuno si fermò, anime costrette
verso un sol punto, a saltuarlo… “Mieti
il tuo raccolto d’amore nel tempo
che sarà. Il tempo ha regole e divieti
che solo grazie a me puoi in un sol tempo
superare accogliendo, come accolgo
io queste foglie e le stelle anzitempo,
insieme alle cartacce che raccolgo
per il mio manto. Son colei che eterna
il mondo, quanto posso. Fisso e sciolgo
quel che passa. – Afferrò così materna
una busta e un dépliant pubblicitario
a terra. “Poësia mi chiamo, interna
a tutte quante le cose, inventario
di possibilità; volto e profumo
ho della donna che amerai, un acquario
di cielo e terra proverai.” Un frantumo
nella pancia avvertì Ruggià il bel viso
di lei quardando un attimo. “Va in fumo
il mondo, ma io ti resto se diviso
anche rimani da ciò che ami. Spade
di luce contro? Un buon foglio è più inviso
alle Ombre se ispirato da me: l’Ade
ritroveranno presto se tu hai fede
in me. Con me anche il nulla presto cade
se tu lo canti. Un’illusione vede
chi è bendato al mio posto, ma è menzogna
o è ragione la loro? Tu abbi fede.
in me. Sì, un’altro re dolce e carogna
vorrà sposare la tua metà falsa
con il mio volto, non te. Ma tu sogna:
non più giovane, gramo, la rivalsa
nel regno della tua stanza isolata
è l’amore che diedi a te io mai falsa;
anche senza l’alloro, non chiamata
io verrò sempre. Ti do il mio quaderno
magico per combattere l’armata
delle Ombre. Lo apri e sarà il loro inferno!”
“Bella signora, nessun poliziotto
nei paraggi? Nessun aiuto fraterno?
Mi porti a casa, s’è fatto vecchiotto
il fatto di quest’ombre. Che tragedia,
finora niente… Ehilà Fulvia, Ninotto
Amedeo!” In quella zona sì intermedia
che ci facevano quei suoi tre amici
che chiamava a gran voce? Ora s’insedia
la luna in cielo tra scure vernici
notturne e crepe di rami ormai spogli.
In lontananza, lungo le pendici
di una collina, un villaggio, poi scogli:
mai visto il mare lì nell’entroterra!
Forse s’era innalzato per gli imbrogli
degli uomini e diffuso sulla Terra;
però che bello, nel suo territorio!
Mare d’argento, ingannevole serra
tra golfi e nuvole di nero e avorio;
forse lì quella casetta “La Papi”,
Maja e Melissa sopra un purgatorio
feriale per espiare i grattacapi
di un anno a scuola con l’amaca tesa
tra i sugheri di querce, lo spleen d’api
costrette nell’alveare e nell’attesa
di un’altra primavera. Ora precaria,
anzi invernale la fronda e sospesa,
d’una stagione sconosciuta l’aria.
Dov’era andata la donna di prima?
Andava per inerzia, solitaria
la via e quaderno in mano, con quel clima
strano ma stranamente più tranquillo,
per quanto stanco fin sopra la cima
dei capelli. Sì, starsene tranquillo
a casa con la nonna gli sarebbe
convenuto: anziché un nonnetto arzillo
al suo posto un bambino ora starebbe,
nel castelletto già intento a sognare
– riverbero di un sogno già parrebbe,
tuttavia, la sua faccia lì in quel mare
piccolissimo a terra, sì invecchiata…
Notò dei mulinelli, lì in quel mare
lontano, e qualche tromba sconfinata
fino alla volta celeste. In altezza
lui era rimasto lo stesso: abbinata
a dei calzoni a quadri, una finezza
con cappuccio di felpa rossa e crema
gli andava uguale a quando ebbe fierezza
per andar via. Guardava poi l’estrema
parte dell’asta, sfiorava la scarpa
lungo la gamba come prima. Trema
un po’ all’idea: finanche la sua scarpa
era cresciuta frattanto? Pazzesco,
tutto pazzesco! Quand’ ecco la scarpa
stringata nera squarciarsi ed un fresco
al piede percepire per quell’arma,
ormai fosforescente, che a un guerresco
impatto lo approntava… Come tarma
che ti divora il fiato nei polmoni,
avverte un suono ostile che lo allarma.
Dai rami scendono informi gli aloni
funesti, negativi di ologrammi
che assumono la forma dei bocconi
che incontrano, portali per programmi
di sparizione: sono le Ombre atroci
che vanno verso i suoi amici, quei drammi
annunciati durante il viaggio. Voci
confuse sente Ruggià mentre impugna
la spada, voci d’animali, voci
di bambini in quel viale per la pugna
già sparpagliati, voci che si fanno
canto alieno di grilli. Ormai una spugna
d’energia il nostro eroe: mai con l’affanno
lui si giostra ostinato come l’erba
nell’asfalto crepato, in quell’inganno
visivo e acustico. Si fa più acerba
la battaglia: sprezzante, nella destra
il laser ferreo, a manca la superba
agenda, al fine che alcuna finestra
sul nulla non inghiotta quei suoi cari
e anche se stesso, lotta. Si sbalestra,
compressi tra le gambe i miltari
acciai, per un momento: apre quei fogli
e c’è un boato di luce… Sì, miei cari
lettori, eccoci al dunque: con dei fogli
accanto il nostro tra i morbidi clivi
di un letto si ritrova – sono i fogli
virtuali del suo tablet. Oggettivi
quei fatti, reali in sogno? E quella prova?
Vere quelle Ombre e quei compagni vivi?
Dov’erano? Ruggià dove si trova?
Si guarda intorno. Ma ora che età aveva?
Certo, era a casa, lì nella sua alcova,
tra i cinguettii di un’alba che cresceva.
[1] I tre fratelli Morfeo, Fobetore (chiamato anche Icelo) e Fantaso sono gli Oneiroi, dei minori del mito greco figli di Ipno e di Notte. Essi sono la personificazione dei sogni degli uomini e si troverebbero sulle sponde dell’oceano dell’ovest, in una caverna confinante con il dominio di Ade, il dio degli Inferi. Questi dei inviano i sogni ai mortali attraverso due cancelli o portali.
Illustrazione di Vittorio Esposto