Sono un’umanista e un’artista. Ecco come credo che questo potrebbe cambiare il mondo di Francesca Khalifa
“L’umanesimo ci insegna che è immorale aspettare che Dio agisca per noi. Siamo noi che dobbiamo muoverci per fermare le guerre, i crimini e le brutalità di questa epoca e di quelle future. Siamo noi ad avere potere, un potere incredibile. E siamo davvero liberi nello scegliere ciò che faremo. L’umanismo ci dice che qualunque sia la nostra filosofia dell’universo, alla fine la responsabilità per il tipo di mondo nel quale viviamo è nostra”
(The faith of a Humanist, Kenneth Phifer).
Il concetto di Umanismo ha radici antiche nella società umana.
La storia mostra come filosofie umaniste si siano sviluppate sotto diversi nomi in disparate culture nel corso dei millenni. Nonostante le differenze, quello che accomunava le varie correnti era sempre un orientamento specifico nell’ approccio alla realtà interiore ed esteriore, un desiderio di guardare l’essere umano nella sua interezza e da questa prospettiva mirare alla sua realizzazione.
Si capisce dunque che nell’approccio umanista la definizione di cosa sia l’“attualizzazione” di un essere umano e cosa ne costituisca la sua totalità è l’elemento su cui si stabilisce il sistema di valori alla base di ogni azione interiore ed esteriore.
Per me, come essere umano e come artista, il grande valore che questo approccio ha soprattutto nella nostra attuale società moderna sta nel fatto che in qualche modo ci costringe a porci la seguente domanda: che cosa significa essere umani e cosa vogliamo fare della nostra umanità? come vogliamo realizzarla?
Di grande ispirazione tra gli umanisti moderni, l’intellettuale americano- palestinese Edward Said afferma nel suo Umanesimo e Criticismo Democratico che la aspirazione fondamentale di un umanismo moderno dovrebbe essere una praxis che si manifesti nella tendenza ad approcciare sia il mondo interiore che la realtà esteriore con il solo obiettivo della libertà finale dell’essere umano.
In altre parole, l’obiettivo dell’umanismo è liberare il potenziale umano, svincolarlo da qualsiasi repressione o ostacolo e portarlo al più completo e soddisfacente grado di espressione.
Dunque un umanismo moderno è un atteggiamento che aspira ad una emancipazione dell’uomo da se stesso, dai propri limiti e dalle proprie trappole. E’ una forma di “fede” nella capacità del genere umano di progredire e auto-realizzarsi, attraverso il potenziamento di una capacità di scelta conseguente alla presa di consapevolezza di se stessi e attuata tramite i mezzi della “conoscenza”.
La capacità critica e la libera volontà individuale sono centrali in questa visione.
Quando affermo di essere una umanista, non intendo dunque dichiarare la mia adesione ad uno specifico disegno filosofico o sistema di pensiero. Quello che in essenza umanismo significa per me è la disposizione a prendersi la responsabilità verso tutto ciò che è umano e che permette al fenomeno di umanità di esistere e prosperare.
In un mondo posto sempre più sotto pressione dai contrasti e dalle contraddizioni di una interazione globalizzata, minacciato da tensioni autodistruttive e catastrofi ambientali, io sono convinta che un approccio umanista possa modellare un sistema dove integrazione e coesistenza siano non solo possibili, ma desiderabili sulla base della condivisa realtà umana. In un tale sistema la volontà di preservare l’essere umano e il suo ambiente si orientano così verso una forma di vita sostenibile e interconnessa. Una forma di umanità che si avvicina a quello che per me Nietzsche ha espresso nel concetto dell’“uomo dell’oltre”. *
Per questa nuova forma di umanità l’arte non solo è il sangue e l’impulso vitale, ma è anche la via.
Infatti se ci fermiamo a pensare, l’arte, in quanto esperienza distintiva dell’essere umani, copre un ruolo essenziale nella storia delle società.
Fare arte significa esprimere attraverso simboli (che siano visivi o sonori o dell’immaginazione linguistica) una realtà interiore. Se osserviamo l’arte primitiva e paleolitica, ci rendiamo conto di quanto questo bisogno di riflettere esteriormente ciò che accade interiormente sia specificatamente un bisogno dell’uomo che ci accompagna dalle origini. Nessun contesto umano prescinde da questa necessità.
Quello dell’artista si è definito storicamente e socialmente come un ruolo specializzato all’interno di una comunità. Con questo intendo dire che all’artista è stato storicamente e socialmente affidato il compito di occuparsi di esprimere le emozioni condivise e concretizzare una unione tra il mondo interno e quello esterno (che l’unione diventasse una forma di sublimazione o un ideale a cui aspirare). Ogni artista è per questo rappresentante della società in cui vive: ne rappresenta le paure, le tensioni, i desideri e le gioie. E trasversalmente allo stesso tempo ogni artista si fa carico di rappresentare le varie sfaccettature della condizione umana universalmente, una condizione condivisa da tutti gli esseri umani al di là delle differenze di spazio, tempo e status sociale.
Non è questo forse un compito della massima importanza e responsabilità?
Un artista che abbia compreso questo ed il proprio ruolo è chiamato a prendere consapevolezza di sé prima di tutto: consapevolezza dei propri abissi e dei propri desideri più profondi, della propria vulnerabilità e della propria autonomia.
Ogni opera d’arte è il risultato di una catena minuziosa di scelte (il cosiddetto processo creativo). Un artista che non sia consapevole, è allora una vittima (magari anche talentuosa) di circostanze subconscie e pressioni esterne e non è così in grado di recapitare nessun autentico messaggio artistico.
Solo un artista che svolga il proprio ruolo coscientemente e autenticamente diventa il simbolo per la autorealizzazione individuale.
La nostra società soffre, a mio parere, di una mancanza di arte autentica e onesta. L’occidente industriale e post- moderno ha sviluppato una accentuata tendenza alla frammentazione”.
Quest’ultima è una diretta conseguenza della esasperazione del concetto di “funzionalità” ampiamente sviluppato nell’era industriale moderna.
Ricordo una scena emblematica di Tempi moderni di Charlie Chaplin che ritrae il lavoro dell’operaio all’interno della fabbrica e nella catena di montaggio: ogni lavoratore
(individuo) svolge il suo ruolo nella catena senza poter interferire con il quadro più grande del processo di produzione, alienandosi e allontanandosi da se stesso. Così, ognuno deve contribuire e funzionare nella catena per poter aver accesso ad un riconoscimento sociale, cioè in sostanza alla sopravvivenza.
In questo modo si è attuata la separazione dell’uomo dalla sua natura e il lavoro dalla sua auto-realizzazione.
In un rapporto dell’Unesco del 1972 si afferma che “la separazione (…) delle qualità intellettuali, fisiche, estetiche, morali e sociali è un’indicazione di alienazione, svalutazione e mutilazione della persona umana”.
Ma tornando all’arte, cosa ha comportato questo?
La frammentazione ha indotto l’arte a specializzarsi. Ovvero: l’arte è diventata una forma particolare di intrattenimento e spesso viene percepita come un lusso, non come una necessità. Una speciale forma di funzionamento sociale, per così dire.
Anche l’artista, per sopravvivere in una società che non gli riconosce più un ruolo di guida e specchio, tende a perdere contatto con il messaggio artistico e a cercare riparo in una misura di sicurezza. Ovvero spesso l’artista si misura con il suo successo invece di mirare all’arte stessa come fonte di riconoscimento.
La musica è per me una forma di salvezza, non una fonte di status sociale. E’ la mia ancora nelle ore difficili e la mia illuminazione nel percorso eroico che è la realizzazione personale.
Eppure quello che sento troppo spesso negli artisti contemporanei è la forte volontà di compiacere il pubblico: una incredibile capacità di controllo e autocontrollo che spesso si manifesta in una tecnica spettacolare e in una totale assenza di intensità e comprensione emotiva.
Ma da quando è diventato accettabile che l’arte ci debba “far sentire a nostro agio” invece che sconvolgere e tramortire?
Io vorrei una realtà dove andare a un concerto o una mostra, dove leggere una critica o una poesia siano egualmente forme potenti di cambiamento quanto lo è una rivoluzione. Vorrei che l’arte tornasse ad avere il potere di riconciliare le diverse e contraddittorie parti della nostra esperienza umana. Non voglio un’arte che mi plachi. Voglio sentire e vedere artisti che non siano facilmente disposti al compromesso per il successo.
Abbracciare una visione umanista oggi significa per me riconnettere le responsabilità dello sviluppo umano all’artista stesso e all’atto creativo.
Se nella nostra società non viene promossa e incoraggiata nessuna attenzione alla crescita interiore e allo sviluppo dell’emotività, l’arte d’altro canto ha ancora la potenzialità di insegnarci ad essere vulnerabili. E con la vulnerabilità si innalza anche la nostra capacità di sentire e la nostra empatia; si rafforza la percezione dell’interconnessione tra gli individui e dell’unione con il nostro ambiente; si crea la condizione per l’accettazione, senza la quale non esiste nessun cambiamento.
Da umanista il mio invito è ad aprire un dialogo onesto e critico sulla realtà dell’arte e del fare arte oggi, con l’obiettivo di creare le condizioni per una rivoluzione sociale.
Lo spazio che abbiamo manipolato attorno a noi procede inesorabilmente verso l’autodistruzione. Il nostro ecosistema si sta letteralmente sgretolando;
il numero di persone che soffrono la fame e non hanno accesso ai beni primari è la maggioranza su questo pianeta; il nostro sistema di consumo si basa sullo sfruttamento e l’abuso; la parte più ricca della nostra società è costituita nella maggioranza da quella che i sociologi definiscono la più indebitata e auto medicata comunità della storia umana, le cui principali preoccupazioni quotidiane riguardano un futuro che non va oltre i prossimi 10-15 anni .
Dobbiamo tornare a chiederci “qual è il nostro proposito”, chiederci cosa vogliamo essere. Dobbiamo avere il coraggio di diventare familiari con l’essere scomodi nel porci queste domande e dobbiamo riempire ogni spazio con la più sfacciata, autonoma e consapevole forma d’arte. Riempiamo i nostri spazi con le emozioni più faticose e più difficili, quelle che non vorremmo mai rivelare, perché soltanto così saremo in grado di affrontare qualunque altra sfida.
Bibliografia
Arrau, Claudio, 1967. A performer looks at psychoanalysis. High Fidelity, 1967.
Chatelier, Stephen, 2013.Towards a renewed flourishing of humanistic education. Discourse: Studies in the Cultural Politics of Education, 2015
Faure, Edgar, 1972. Education and society. Learning to be, 1972.
Khatib, Mohammad, 2013. Humanistic Education: Concerns, Implications and Applications. Journal of Language Teaching and Research, 2013.
Maslow, Abraham, 1943. A theory of human motivation. Psychological Review no
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Said, Edward, 2004. Humanism and Democratic Criticism. Columbia Themes in Philosophy, 2004.
Webster, R. Scott, 2012. Healing the physical/spiritual divide through a holistic and
hermeneutic approach to education. International Journal of Children’s Spirituality, 2013
Francesca Khalifa
frankhalifa@gmail.com
Vincitrice di numerosi concorsi nazionali ed internazionali, nell’estate 2014 Francesca è risultata vincitrice del festival pianistico Ferrara International Piano Festival come artista scelta dal Maestro e musicologo Paul Badura- Skoda.
La sua attività concertistica l’ha portata ad esibirsi estensivamente sia in Europa che negli Stati Uniti, sia come solista che in formazioni cameristiche. La pianista italiana è stata artista ospite per master classes e lectures presso istituzioni come la School of Performing Arts of Virginia Tech University , la University of Central Florida ad Orlando e il Conservatorio Edward Said di Gerusalemme.
Grande sostenitrice dell’importanza dell’educazione musicale e artistica, Francesca è impegnata nell’attività di insegnamento presso la Greenwich House School of Music di New York City ed è stata Professore Aggiunto di pianoforte e musica da camera alla University of South Florida di Tampa e alla New York University.
Dal 2016 al 2018 Francesca è stata direttrice artistica della serie concertistica Classical Thursdays presso il Brooklyn Center for the Arts ed è correntemente direttrice della stagione Ferrara Piano Festival at St. John’s in the Village, New York.
La sua attività di ricerca musicologica sul pianista e pedagogo cubano German Diez Nieto è alla base del documentario Lezioni di Piano in fase di realizzazione.
Suoi mentori sono il Maestro German Diez (1924-2014) e il Maestro Ena Bronstein- Barton, entrambi allievi del pianista cileno Claudio Arrau.