Pensare il lavoro di Edoardo De Santis
Le nuove tecnologie rappresentano dei paradigmi di riferimento la cui complessità prescinde dalla pura e semplice concretezza del loro uso. I nuovi strumenti atti all’utilizzo delle risorse naturali, infatti, derivano geneticamente da uno sviluppo storicamente determinato che va considerato nella sua interezza.
Non si tratta semplicemente di comprendere come si usa un dispositivo, ma bensì di inserirlo nel suo contesto peculiare e quindi all’interno di un orizzonte di significati che consenta di esplicitarne il suo significato progettuale. Le sfide imprenditoriali che ci aspettano riguardano non solo le possibilità di ulteriori progressi in campo tecnico, ma anche e soprattutto la capacità di interagire e di essere ricettivi nei riguardi di un’esigenza che si potrebbe definire “naturale” di cambiamento.
Le organizzazioni aziendali non “hanno” una filosofia di riferimento, esse “sono” l’idea stessa che le anima. È necessario perciò creare un’adesione il più possibile generalizzata agli scopi che le nuove regole del mercato esigono. Le competenze tecniche garantiscono il funzionamento e l’uso degli strumenti, ma non bastano ad esaurire la richiesta di senso che ad esse si accompagna. Il concetto di globalizzazione, a volte adoperato per fini strettamente utilitaristici, ci chiama ad una analisi ancora più profonda rispetto agli scopi ultimi dell’azione concreta. Prescindere dalla comprensione della direzione ultima del senso dei cambiamenti in atto non è più possibile.
Il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche alla fine del diciannovesimo secolo ha per così dire “rifondato” il concetto di verità intendendola come linea curva, come soggetta a continue modificazioni, a continui cambiamenti. Allo stesso modo le regole del profitto rappresentano una conseguenza logica dei processi in atto, e non semplicemente un risultato scontato e fine a se stesso. La questione dell’alienazione sul lavoro, tema centrale nell’opera di Marx ed Engels, non rappresenta semplicemente un problema etico riguardante le condizioni in cui il lavoro viene svolto, ma va considerata una domanda in un certo senso “conclusiva” rispetto al destino finale dell’umanità stessa.
L’uomo è ciò che può e deve fare di sé nel suo rapporto con gli altri. La categoria dell’azione, presente fin dagli albori del discorso filosofico (basti pensare alle riflessioni di sant’Agostino), rappresenta una giustificazione dell’agire lavorativo inteso come fondamento stesso dell’esistenza. Lavoro e vita sono un’unica cosa, non si può pensare l’individuo senza intenderlo come impegnato a produrre per il bene della collettività. L’”homo faber”, così come lo definisce Hannah Arendt in “Vita Activa”, è il soggetto che agisce obbedendo alla sua natura, che ritrova se stesso all’interno del paradigma del lavoro e che non può prescindere da esso.
Di contro a un concetto per così dire “demonizzante” del lavoro e in generale della vita che si svolge all’interno delle aziende, si può e si deve affermare la totale rispondenza delle esigenze dell’individuo nei confronti del suo diritto a legittimare la sua esistenza producendo. La modernità va considerata come l’epoca del “trionfo” della capacità del produrre e dell’azione mirata alla soddisfazione delle esigenze dei fruitori. Ciò non deve però condurre ad un abuso rispetto alle possibilità insite nel concetto di produzione.
Un mercato globale, aperto alle più svariate possibilità di sviluppo, non deve e non può rappresentare un ostacolo alla libera espressione delle singole individualità. Il lavoro è dell’uomo e per l’uomo: cedere alle logiche del profitto inteso come utile da perseguire in qualunque modo significa trascendere i limiti dell’agire concreto. C’è quindi bisogno di uno sviluppo che sia il più possibile sostenibile dalle imprese e dai lavoratori, tenendo fermo il rispetto nei confronti dei diritti dei singoli individui. La produzione economica, infatti, rappresenta anche e soprattutto una possibilità che si rivolge a chi è fuori dal contesto sociale di riferimento. Come afferma il filosofo Hans Jonas nel suo famoso testo “Il principio responsabilità”, l’agire pratico è rivolto essenzialmente alle generazioni future, nei confronti delle quali siamo direttamente responsabili.
Per concludere vorrei citare di nuovo Nietzsche il quale afferma, in “Così parlò Zarathustra”, che ciò che rende in maniera peculiare “adorabili” gli esseri umani è che la loro esistenza non è nient’altro che un sorgere e un tramontare. La nostra esistenza è un passaggio, ma un passaggio che porta con sé la necessità di portare a termine un compito. L’uomo veramente libero è colui che vive per gli altri, e in ciò, a mio avviso, è insito il significato profondo del lavoro, in qualunque forma esso si concretizzi.
EDOARDO DE SANTIS