Ricchezza dei legami deboli di Dr. Michele Curcio, Dr.ssa Luigia De Stefano, Dr.ssa Filomena Rocca, Dr.ssa Annagiulia Greco
Nell’ambito del CSM di Catanzaro è uso discutere di casi clinici che sovente si tramutano in riflessioni teoriche, talvolta tali discussioni si allargano ad altri specialisti. Alcuni confronti si sono svolti sulla socialità di pazienti psichiatrici e psicogeriatrici nella prospettiva della teoria della “forza dei legami deboli”.
Tale costrutto teorico affonda le radici in studi iniziati sul finire degli anni 60 del secolo scorso, quando uno psicologo americano, Stanley Milgram, nel tentativo di studiare la rete delle relazioni interpersonali in una comunità, ideò un semplice esperimento: propose a delle persone scelte a caso negli stati del Nebraska e del Kansas di inoltrare una lettera ad un loro conoscente a Boston rispettando una regola: ognuno doveva inviare la lettera ad un loro conoscente ritenuto “vicino” al destinatario. Sorprendentemente le lettere giunsero in numero copioso, in tempi ristretti e soprattutto dopo un numero limitato di passaggi, mediamente sei. Il risultato dell’esperimento all’epoca ebbe una breve fama, in compenso si diffuse il concetto di “sei gradi di separazione” e quindi di “piccolo mondo”, ovvero una comunità è costituita da una rete di relazioni che legano tra loro persone anche molto distanti tra di loro.
Nell’esperienza comune è possibile rintracciare un’altra proprietà delle reti sociali: esiste una tendenza al formarsi di raggruppamenti, ovvero molti amici di un individuo sono a loro volta amici tra di loro. Tale proprietà è detta clustering e si può calcolare il coefficiente di clustering contando quanti sono amici tra di loro gli amici di un individuo.
Nel 1973 il sociologo Mark Granovetter pubblicò un articolo dal titolo “The strength of weak ties” (la forza dei legami deboli) in cui sosteneva che la rete sociale è sostenuta da legami deboli. Quotidianamente o quasi, frequentiamo delle persone che possono essere amici, familiari, colleghi di lavoro ecc, questi sono i legami forti, mentre altre persone sono in contatto con noi occasionalmente o comunque con una scarsa frequenza, si tratta dei conoscenti, quelli che vengono definiti come legami deboli. Se i legami forti sostengono la rete sociale ristretta dei gruppi locali, i legami deboli, fungendo da “ponti”, collegano tra di loro i diversi gruppi locali, ovvero, sostiene nell’articolo Granovetter, tengono insieme la grande rete sociale. I legami deboli collegano isole sociali lontane ed estranee tra di loro. Ovvero come scrisse Granovetter nel succitato articolo: “dal punto di vista dell’individuo i legami deboli rappresentano una risorsa importante”.
Granovetter per convalidare la sua ipotesi ideò uno studio: intervistare delle persone che di recente avessero trovato lavoro e scoprire il tipo di relazione che avevano con l’intermediario che li aveva messi in contatto con il nuovo datore di lavoro. Ebbene addirittura l’84% dei mediatori era costituito da persone appartenenti all’ambito dei legami deboli e solo il 16% aveva risposto che il contatto era stato mediato da persone che frequentavano spesso.
Proprio partendo da queste ultime affermazioni, nel corso delle discussioni tra colleghi abbiamo notato che nelle indagini di routine sulla socialità dei pazienti, le domande vertono quasi esclusivamente sulle relazioni “forti” costituite per lo più da membri della famiglia d’origine.
Semplici domande possono indagare la quantità di legami deboli che una persona ha: “a quante persone fai gli auguri a Natale che non vedi almeno una volta a settimana?” e/o “quante persone sono nella rubrica telefonica che non siano tuoi familiari o colleghi?”.
Da un iniziale riscontro è parso subito evidente l’estremo impoverimento dei legami deboli, quelli cioè che potevano garantire un collegamento con altri ambienti sociali dove potenzialmente ri-costituire relazioni non più “cristallizzate” su alcune posizioni come quelle del gruppo locale.
Anche i percorsi riabilitativi privilegiano invariabilmente il rafforzamento delle relazioni locali, tentando anche di ripristinare relazioni contaminate dalla psicopatologia, ma che sovente risultano ormai carenti di risorse, avendole già nel tempo investite. Le risorse restano patrimonio di gruppi sociali diversi che rimangono solo a livello potenziale.
È ormai opinione diffusa e, confermata da una mole considerevole di studi, che l’isolamento sociale non riguarda solo le persone affette da malattie psichiatriche gravi ma che rappresenta comunque, un problema diffuso che rispetto ad altre epoche ha assunto nuovi aspetti, basti pensare al fenomeno in crescita, ma difficilmente quantificabile, per ovvi motivi, degli hikikomori.
Ma come intervenire, allora, in questi casi? A chi rivolgersi?
Intanto è fondamentale capire che le reti sociali appartengono a gruppi di reti molto diffuse in natura che possono essere di tipo biologico (reti metaboliche, neurali o di diffusione delle epidemie), in economia, si veda la distribuzione della ricchezza, piuttosto che le reti dei collegamenti dei voli aerei ed ovviamente la rete di internet, ecc.
Altro aspetto importante è che per tentare una rappresentazione geometrica delle reti, di relazioni ci si rivolse ad una branca della matematica: la teoria dei grafi. Tale teoria si basa su quello che potrebbe essere considerato un semplice gioco: unire con delle linee diversi punti, ciascuna linea rappresenterebbe un ponte. In tal modo si costruiscono diversi tipi di reti. Classicamente si possono avere reti regolari in cui i singoli nodi sono collegati ad altri da un numero costante e fisso di ponti, oppure quando il numero tende a divergere sempre di più si hanno delle reti casuali. In natura però prevalgono dei tipi di rete intermedi (scala free) in cui alcuni nodi hanno molti più collegamenti della media degli altri, sono i cosiddetti “hub”, termine diventato consueto con la pandemia di covid19 e che definisce quel particolare nodo, nello specifico in ambito sanitario, come ricco di collegamenti quindi di riferimento per altri “nodi” (strutture sanitarie).
Nel modello di reti di Barabasi-Albert infatti si ipotizza che con la crescita di una rete, ovvero quando si aggiungono nuovi nodi, questi tendono a collegarsi ai nodi più ricchi di collegamenti.
Quindi quando necessita di cercare nuovi legami sociali per motivi patologici, o altro, conviene tentare di rintracciare gli “hub-sociali” e fare riferimento a loro.
Ma, altra domanda, la socialità oltre che delle eventuali patologie o situazioni/scelte individuali può risentire di altre variabili?
Dalle discussioni è emerso che anche l’età ha una profonda importanza, infatti se dopo la nascita e per i primi anni di vita riveste una importanza primaria la rete locale familiare, con l’avanzare degli anni, diciamo che già con la pre-adolescenza, la rete di conoscenze tende ad ampliarsi sempre di più fino a raggiungere un massimo con l’età adulta, segue quindi un periodo di mantenimento o di relativa perdita per poi scemare sempre di più con la vecchiaia quando diventano nuovamente fondamentali le relazioni del gruppo locale familiare o comunque di supporto. È conseguenziale che con l’impoverirsi di interessi e di attività, e quindi trascurando la ricerca di novità, la rete tende dapprima a cristallizzarsi per poi progressivamente impoverirsi.
In conclusione si vuole affermare che i legami deboli rappresentano una ricchezza di riserva non solo relazionale ma di potenzialità inespresse per il singolo individuo e che il rafforzamento o la ri-creazione di questi contatti soprattutto con gli “hub” dovrebbe costituire un elemento centrale degli interventi di riabilitazione psichiatrica. Infine si vuole far notare che l’interazione, ovvero gli incontri con discussioni tra diversi professionisti e non limitati solo alla discussione di singoli casi può aprire a prospettive (teoriche) e soluzioni nuove e più rispondenti a patto che i diversi modelli teorici vengano considerati per quello che sono, modelli e non verità assolute.
Bibliografia di riferimento:
– Mark Buchanan, “Nexus”, Mondadori, Milano, 2003
– Alberto Gandolfi; “Formicai, imperi, cervelli. Introduzione alla scienza della complessità”, Boringhieri, Torino, 1999
– Malcolm Gladwell, “Il punto critico. I grandi effetti dei piccoli cambiamenti”, Rizzoli, Milano, 2000
– Complessità e reti di interazione dal sito: https://.ics.cnr.it
Dr. Michele Curcio*, Dr.ssa Luigia De Stefano**, Dr.ssa Filomena Rocca***, Dr.ssa Annagiulia Greco***
*Consulente Filosofico e Psichiatra CSM Catanzaro; **Psichiatra CSM Catanzaro e responsabile del Centro Diurno di Catanzaro; ***Geriatra CDCD ASP Catanzaro Lido; ****Direttore ff CSM Catanzaro