Rileggendo Pianto antico di Fausto Corniani
La mia generazione, alle elementari imparava mediamente quattro o cinque poesie a memoria. Io ad esempio imparai San Martino e Pianto antico di Giosuè Carducci, metà Passero solitario di Giacomo Leopardi e Le violette di febbraio di Ada Negri. Allora si usava così e la cosa non mi dispiace perché, ogni tanto, quando la mente vaga per conto suo, mi viene da ripetere qualche strofa ed è piacevole. Ricordo però che imparai Pianto antico con più fatica che le altre poesie, pur essendo molto breve, e anche ora mi capita di sbagliarne qualche parola. Pochi giorni fa però, rileggendo casualmente il testo, ho capito il motivo di ciò e credo che la cosa possa interessare. Riporto il testo così mi si può seguire meglio.
L’albero a cui tendevi la pargoletta mano,
il verde melograno da’ bei vermigli fior,
nel muto orto solingo rinverdì tutto or ora, e giugno lo ristora
di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta percossa e inaridita,
tu de l’inutil vita estremo unico fior,
sei ne la terra fredda, sei ne la terra negra; né il sol più ti rallegra, né ti risveglia amor.
Osservando le frasi notai che molte parole sono tronche (fior, calor, inutil, sol, amor). Poi osservai che spesso anche le proposizioni vengono troncate e quindi abbreviate (da’ bei, de la mia pianta, de l’inutil, ne la terra, ne la terra) anche quando non ce ne sarebbe motivo: scrivere dai, della, nella non disturberebbe molto la musicalità del testo. E mi colpì infine una ripetizione, in verità inutile per il senso della frase: or ora; come pure mi parve una durezza un po’ inutile dire negra al posto di nera. Leggendo questa poesia, in pratica, si può avere la sensazione di incespicare e fermarsi sulle parole.
E quindi capii perché questa poesia faticava e fatica a restarmi in mente: troppe interruzioni, troppe parole spezzate mi rendevano difficile memorizzare le frasi. Si può obiettare che questa era una consuetudine poetica del tempo e che la si ritrova anche, ad esempio, in San Martino. Mi pare però che lì sia meno evidente e in ogni caso sia
molto più scorrevole la lettura, anche per l’uso massiccio dell’onomatopeica, cioè il far risuonare le parole del loro significato. E qui invece di onomatopeica non pare ce ne sia molta.
Ma forse chi legge ora sta capendo quello che ho creduto di capire io. Qual’è il linguaggio, il modo di esprimersi, di parlare che contiene tutto ciò? Il pianto. Eh già, qui Carducci sta piangendo pensando al figlioletto morto. E questa è quindi l’onomatopeica del testo: il singhiozzo, le parole tronche che non hanno la forza di collegarsi l’una all’altra e si fanno brevi, si ripetono (or ora), dure (negra). Se rileggiamo il testo con questo sguardo, sentiamo Giosuè che piange.
In effetti la cosa è in linea col titolo del componimento, pianto: il titolo illustra, espone sempre il contenuto e il significato del testo, anche se spesso non è presente al suo interno.
Certo, molte altre cose gli addetti ai lavori potrebbero dire su questa poesia, ma forse anche questa ha un senso.
Mi resta da capire perché dice unico fior, visto che aveva anche due figlie. Forse ciò è dovuto al maschilismo che vede nel figlio maschio il fiore che darà il frutto: portare avanti il cognome. Forse, ma questa ipotesi ora ci interessa poco davanti a quel pianto, il pianto di un grande del suo tempo, che si smaschera e riconosce umano: “percosso e inaridito”. Inaridito magari perché quel dolore lo ha reso antico per sempre, pur se a soli trentasei anni.