La fissità del tempo nell’occhio mobile del fotografo di Carla Sala
Nei suoi scatti, il bisogno di testimoniare la realtà di mondi per la nostra concezione troppo lontani, il bisogno di rilevare la povertà e il disagio di luoghi che hanno deciso di non inseguire il tempo, a differenza del nostro mondo occidentale; nei suoi scatti, il bisogno, infine, di guardare verso nuovi punti di vista, verso diversi stati di cose.
Uno dei fotografi più noti della nostra bella terra è sicuramente Tano Siracusa, il cui retroscena teorico è veramente suggestivo.
Un’intervista, un incontro illuminante, che mette in chiaro come, dietro ad un semplice scatto fotografico, ci siano oltre ad una grande passione anche un impianto esistenziale non meno significativo.
Grande seguace di Bresson, più che un artista ama definirsi un reporter, distinzione di grande importanza. Sin dalla sua nascita nel 1840, infatti, la fotografia è stata protagonista privilegiata di una querelle che la voleva, a seconda dei punti di vista, una forma d’arte.
Per Tano la foto come momento veritativo, che inerisce alla verità assoluta, è soltanto un caso; la fotografia è uno “strumento di adeguazione alla realtà dei fatti”.
Realtà dei fatti, sì, ma non nega che dietro ogni scatto ci sia lo “zampino” dell’ “artista”. È sempre la sua interiorità che viene fuori “sia in pittura che in fotografia”, interiorità che è “una fusione di spazio e tempo” secondo il punto di vista del reporter: la differenza è che “il pittore immagina, il fotografo osserva”, e nell’osservare proietta naturalmente se stesso in quella porzione di spazio e di tempo che rimarrà eternamente uguale.
“La distinzione fondamentale tra un dipinto di Goya e un reportage di guerra è che l’immagine di Goya può essere ripetuta infinite volte, lo scatto pur con uguale impatto estetico e struttura formale, non è ripetibile.”
Ma il fotografare per Tano Siracusa non è una forma d’arte “noi non abbiamo niente a che vedere con l’arte”, anche se considera il reportage “un genere letterario” e ritiene che sia sempre una “fruizione di tipo estetico” quella che ci si presenta innanzi ad una fotografia.
Qui si inabissa una profonda differenza tra il fotografo e il pittore, una differente mania, se così si può definire: l’uno è tutto preso dal mondo esterno, l’altro dal mondo interiore, anche se è necessario ribadirlo, è sempre l’autore ad impostare lo scatto, l’inquadratura, in generale il soggetto ed in qualche modo a plasmare l’opera compiuta. “Il fotografo racconta e si racconta” continua il reporter, per il quale Bresson è “un fotografo non un artista”.
Parla di “realtà” più che di “verità” il fotografo agrigentino, anche se emerge sempre più che questa realtà è quella del fotografo, è sempre lui che decide quale inquadratura portare fuori dal tempo. La verità non è mai un momento della realtà, ma un istante surreale: è proprio questa surrealtà, in vero, che affascina il fotografo, surrealtà che definisce “l’attimo privilegiato”, un istante nel fluire del tempo.
È questo, probabilmente, uno dei protagonisti privilegiati della sua costellazione teorica, il tempo, questo collante invisibile di tutte le cose che viene meno al cospetto del mirino della macchina fotografica, ciò che fa della fotografia un attimo eterno.
Tutto l’impianto teorico della sua fotografia è inestricabilmente legato al tempo, quello che una fotografia porta in scena “è già accaduto, è già stato; una foto riuscita è quella che coglie l’attimo privilegiato, un momento di estrema improbabilità”. Sembra quasi che il sottrarsi al tempo, il riuscire a sfuggire a questo tiranno che tutto domina sia il luogo principale della sua affezione nei confronti della fotografia.
E prosegue: “Se un uomo sparasse ad un altro in riva al mare, il mare sarebbe più interessante”. Queste parole mostrano pienamente il punto di vista di Tano Siracusa per il quale la fotografia è una sorta di testimonianza storica preservata dalla corrosività del tempo “la fotografia non è arte, ma emozione, e sicuramente informa di più, l’importante è sorprendere”, conclude il fotografo.
È sempre l’improbabilità di un attimo che “cade fuori dal tempo” un volta impresso nella “pellicola” fotografica, che affascina il fotografo, un momento irripetibile che la sensibilità del fotografo può cogliere; con ciò riemerge netto il ruolo di chi sta dietro la macchina fotografica, uno strumento che è unicamente mezzo per una testimonianza. “Non ho alcun rapporto feticistico con la macchina fotografica” afferma il fotografo in “Scattando incontro al tempo” edizione Officina Trinacria Palermo 2010.
Oltre alla necessità di sorprendere, però, il fotografo deve rimanere legato ad una sorta di onestà che lo vede “ladro di immagini” che devono comunque rispecchiare un dato di fatto, è “il piacere di attestare qualcosa che per altri è sconosciuto”. Questa l’etica professionale del fotografo agrigentino.
Molti dei suoi scatti hanno per soggetto il movimento, il mosso della sua fotografia però non è un modo per eludere l’atemporalità dello scatto, il suo essere qualcosa di “permanente, che ha un chè di stregonesco, di magico, un ritorno dal nulla del passato, inquietante”, ma soltanto un caso, dovuto al fatto che gli scatti il più delle volte sono “notturni, presi a mano libera o sono ‘rubati'”. Continua il reporter: “Il rischio è che il mosso diventi una maniera, io ho scoperto solo successivamente le sue qualità estetiche.” Dunque il movimento che trapela dalle sue foto non è assolutamente un modo per oltrepassare la fissità dello scatto fotografico, ma appunto un caso; e per sopperire alle necessità del tempo nella sua opera il fotografo si è pian piano accostato ai video, sempre come momento che testimonia una realtà che è quella che il fotografo si trova innanzi.
Questa la nuova passione del fotografo che si trova a fare i conti con la completezza che soltanto il tempo può donare.
È insomma il tempo, oltre che naturalmente la luce, uno dei pensieri fissi del reporter agrigentino. Il tempo, questo oggetto così assolutamente soggettivo che impone la sua oggettività nello scandire le cose; questo soggetto di mille riflessioni che hanno portato uno dei più grandi pensatori del XIX secolo a negare addirittura la sua esistenza; questo chiodo fisso per chiunque si “soffermi ad annusare la vita.”
CARLA SALA