La fiaba di RUGGIÀ E I PULCINI COLORATI di Nino Velotti
Nella memoria per la foschia come
cime d’alberi affiorano ricordi
all’alba; come un corpo gonfio, come
vitalità annegata in monocordi
giornate, emerge da uno stagno in testa
un’immagine mossa… Tu ricordi
i tuoi giochi infantili, qualche festa
di paese, ma un dolore ti accompagna,
un palloncino che va e non s’arresta
col suo filo nel cielo che si ragna
di gesso – se ora ti sfugge di mano
la vita, lascia che sulla lavagna
del tempo scorra del tempo la mano:
sii come l’elio nell’aria pesante…
Un dolor non d’età perduta, insano
forse, presente in quel tempo distante,
capricci d’ansia che tu non capivi,
quell’angoscia di bimbo: tu mutante
che eri in te e che non cambi mai tra i vivi…
Triste d’essere al mondo, ingiusto mondo
che i vivi intrappola tra i recidivi
alla vita, allo sghembo girotondo
dove chi casca per uno sgambetto
fraterno non si rialza ed un affondo
da terra al prossimo osa accanto, detto
ragazzo forse nacque già ammuffito,
troppo sensibile, preciso, stretto
d’energie, poco propenso all’attrito
della gente, un po’ un cappio al proprio collo,
ma di fradicia fune. Crebbe unito
al fratello maggiore, al cui controllo
sfuggì appena possibile. Strappava
per gli errori i quaderni; da un controllo
in più la perfezione risultava?
Per la musica d’uno sceneggiato
in tivvù non dormì per un po’. Ornava
i diari di isole a tratto immediato,
ma questo fu alle medie e poi al liceo
altre figure abbozzava, baciato
da qualche Musa strana in un torneo
di fantasia… “C’è troppa fantasia,
più giornalista va reso il museo
di ragazzo!”, diceva la prof. “sia
regolando lo scritto che spronando
l’orale”. Accadde nella fattoria
delle medie che l’estro limitando
finì per perdersi nel mondo reale…
Ma torniamo nel tempo indietro, quando
era più piccolo, con quel suo ideale
immaginario antico procediamo;
magari confondendo nell’irreale
il vero e l’epoche mischiando, diamo
forma a una storia, inventiamo un racconto,
anzi, sia alone di fiaba! Un richiamo
a ciò che è stato e che sarà al tramonto
dell’esistenza del ragazzo, forse…
Quale fu la missione sua? Al confronto
di Eracle le sue imprese qui trascorse
furono inezie. Doveva portare
quattro pulcini colorati, in forse
per la vita, fin sopra a quell’altare
sul suo paese, al castello sulla cima
della collina; doveva salvare
i fluorescenti pennuti dapprima
dagli altri bimbi, poi dalle arpie brutte
che i nidi avevan tra le luci in cima
a quegli addobbi, immani aquile asciutte
nei visi umani di ogni debolezza
rapaci, lì in agguato farabutte
sbattendo le ali con sinistra brezza.
Casette di cartone a più livelli
coi giardinetti intorno, una ricchezza
di rose a maggio affacciate ai cancelli,
gli erano accanto lungo il suo cammino;
come riscaldamento dei fornelli
elettrici alle pareti, un camino
che sbuffava aria pumblea anche in estate
da tubi d’eternit. Qualche tombino
di scarafaggi blu sciamava a ondate
lungo l’asfalto. Sulle case, fitte
di telescopi e di antenne puntate
verso segnali alieni, vi eran scritte
varie e spot su adesivi a brand ignoti.
Ruggià, con le piumate entità zitte
dentro una vecchia cartella, devoti
pennuti al buio, solcava i marciapiedi,
scenario noto, verso luoghi ignoti,
il noccioleto magico: “Tu chiedi
alla fata, abita nel tronco cavo
di un albero di noce enorme, chiedi
come raggiungere il monte. Sii bravo
nel proteggere questi pigolanti
bambini che non volano, sii bravo
Ruggià, ti do anche la pistola. Santi
Numi abbiatene cura!”. Ciò tuonava
detto al piano di sotto, lì davanti
al forno, dalla Boss che preparava
la pappa agli animali del quartiere,
la sua vicina di casa; levava
altrove, forse, quel che dava; alfiere
di accoglienza gentile, a lui era cara.
Quasi alle soglie del bosco, le schiere
selvagge dei nemici alla Calcara
gli avanzarono contro, con la calce
puntata contro, la furia corsara
di chi marchiò una gatta e con la calce
e con la pece e la impiccò balordo.
Uscì dalla pistola come falce
non un proiettile, un raggio e un suono sordo
che sparpagliò i bambini bianchi in fuga.
Giunto nel bosco, Ruggià stanco e ingordo
di sedersi pensò a una tartaruga
che si rintana nel guscio; uno schermo
giallo, che trasmetteva qualche ruga
d’interferenza e formicolii, fermo
tra i rami, catturò il suo sguardo. Vide
per un istante un teschio già malfermo
dietro foglie e sostanze pesticide
delinearsi sul monitor. Sudore
sulle mani, presagi d’omicide
furie, Ruggià proseguì con timore
il suo cammino, mentre la frangetta
di capelli rossicci con tremore
allontanava dagli occhi. Balbetta
tra sé e sé di voler tornare a casa,
quand’ecco quella sagoma, la detta
pianta apparire maestosa ed invasa
da mille occhi. Una stinta bacinella
azzurra ai piedi dell’arborea casa
gli balzò agli occhi; lì una colombella
venne ad abbeverarsi tra le spoglie
d’erbe ed il sottobosco… Sì, era bella
per Ruggià ogni pozzanghera, alle soglie
delle quali veniva sempre in vista
d’idrocarburi iridescenti, foglie
alla deriva, quei girini in pista
da ballo come aeroplani in un cielo
doppiato a terra. “Forse si rattrista
questo ragazzo al pensiero del cielo
e del mare lontano?” fa una voce
alle sue spalle, mentre ora in quel cielo
che non vede intravede sottovoce
nella marina plastica il suo viso
riflesso, poi altro. Si gira veloce.
La fata ha un volto strano che è diviso
a metà: è vecchia da un lato, dall’altro
è ragazzina. “Sulla faccia è inciso
il mio sentire duplice; peraltro
s’invertirà il processo delle parti
e presto giungerà un istante d’altro
accordo in cui sarò compatta. Darti
quest’esperienza potrei ogni mezz’ora.
Innocenza e saggezza, per spiegarti,
si manifestano in lotta e svapora
l’una nell’altra metà sovvertendo
questo sviluppo prima dell’aurora
e della morte corporea, fuggendo
l’irreversibile inizio. In effetti,
sono una bimba e un mago, stai capendo.”
Tuta dorata a zampa, dei difetti
di pronuncia, lo strambo personaggio,
di sesso fluido forse, i peli eretti
su una guancia, con chioma di piumaggio
come gli uccelli vari giunti addosso
a lui frattanto, dà dritte sul viaggio
da proseguire: botola nel fosso,
oltre il cavalcavia dell’autostrada,
bacchetta magica di noce e un osso
di frutto per placare la masnada
una volta all’aperto. Memorizza
tutto Ruggià, quand’ecco, come spada
morbida e salivosa che gli schizza
sulla mano, la lingua di quel cane
che poi ringhia, scodinzola, si rizza
rabbioso. “È il pitbull Natalino, un cane
abbandonato da combattimento.
Hai paura? In fondo è buono come il pane.
Però fa scena. Certo, è un po’ un tormento,
ha i vizi, ma verrà con te al castello.
Destino uguale di maltrattamento
per lui e i pulcini… E basta con l’agnello
dei sacrifici! Ti do un cibo buono
per tutti, mia creazione, che è anche bello
oltre che saporito. Il gran frastuono
che fa se abbaia terrà lontani i mostri.
Intasca questo sacchetto.” Un suono
sfrigolante seguì i lontani “mostri”
pronunciati con voce da orco. Strana
fata davvero… “Ruggià, se ti mostri
più coraggioso e non di porcellana
seguendo le istruzioni, arriverai
al castello volando. Che fiumana
lì di animali in pace troverai!
Sereni e senza stress, dalla Natura
e dal profitto umano li vedrai
lontani, liberi in una pianura
senza lottare, rotolar nel verde
sicuri e salvi ormai da ogni tortura.”
Inteso ciò Ruggià nel fitto verde
insieme a Natalino si incammina
salutando la fata; al sempreverde
luogo, a cui pensa fiducioso, abbina
l’ansia d’incognite. Tutto il dovuto
lui porta a termine. Da una cabina
telefonica uscendo preceduto
da Natalino, vede un mondo assurdo:
al suo nasino, al visino paffuto,
ai suoi occhi verdi giunge quell’assurdo
di un ospedale con mille finestre
come fauci distorte da un assurdo
dolore di fantasmi, implose orchestre
in un lamento solo. Luminarie
intermittenti, sotto la rupestre
parete, includono cangianti varie
torrette e alti tralicci; venditori
di palloncini neri mostran carie
di smorfie ad un corteo con portatori
di statue bieche; frattanto le arpie
lì in cima vanno, razziati i fetori
del crepuscolo in cielo, lungo strie
di divorate rondini. Già abbaia
Natalì a quelle ormai reali fobie,
già le mezze galline da quell’aia
eterea puntano su loro due,
quando Ruggià all’orribile ghiandaia
stridente oppone le armi lignee sue.
Defeca ed urla, latra Natalino,
una civetta sembra che le sue
tempie gira quel mostro lì vicino.
Prende in tasca quell’osso di albicocca
datogli dalla fata e il ramettino
stregato: mentre l’arpia apre la bocca
lancia quel nòcciolo dentro, lo ingoia;
gira poi la bacchetta e lei trabocca.
La donna uccello sembra senza foia,
catatonica e buona. Ce ne è un’altra.
Ruggià subito sale su quel boia
aereo ammansito con solerzia scaltra;
lo segue Natalino, che si mette
di traverso… Portò tra l’una e l’altra
arpia il pennato veicolo alle dette
amenità del castello, i capelli
usando come redini, alle vette
collinari approdò e scesero quelli
nella rocca oltre le torri. Si taccia
la meraviglia del luogo per quelli
che andavano leggeri nella traccia
felice. Quei pulcini, già fuor dalla
cartella, quell’arpia con una faccia
ormai tranquilla, insieme a una cavalla
lì vicina mangiarono il buon cibo
insieme ai nostri eroi. Poi una farfalla,
succhiato come nettare quel cibo
che rende bello il mondo e appaga il gusto
proprio, disse a Ruggià: “Lo sai, prelibo
questo pasto che rende il noi robusto,
l’altruismo che ci sgrava dall’angoscia
del tedio di noi stessi e dal trambusto
del tempo che non passa o con angoscia
passa in un attimo, ti dà energia
anche all’inferno – ma questa tua floscia
pancia non schiaccia -, che tra gente pia
ti eleva anche se ignoto e senza peso
resti al mondo, il qual forse a gente ria
associa un paladino d’indifeso
cosmo senza riscatto e ti fraitende.
Fu salvato Barabba, finì appeso
l’altro, e come eden c’è chi spesso intende
il proprio inferno… Ma il cuore or stupisci
con gli animali qui uniti! Si estende
lì un lago: ha carpe koi, balene e lisci
delfini grati… Dunque, pensi salvi
l’amor per solo amor che tu capisci
solo da nostalgie di casa? Salvi
come farete ritorno? Ti disse
qualcosa il mago? So che poi ti salvi,
che poi ritornerai… Ti svegli?!” Disse
l’insetto, quella mosca che sul bordo
del letto zigzagando fa un’ellisse…
A volte affiora un sogno da un ricordo.
Illustrazione di Marilena Imparato