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Ardenti o Serafini: Uno Sguardo all’Iconografia Parte Seconda di Eleonora Paradisi Miconi

Jean Fouquet, Madonna del latte in trono col Bambino (particolare), 1450-1455

Olio su tavolo, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten

 Ali di fuoco sono pure quelle del Serafino crocefisso che Tommaso da Celano riferisce apparve a San Francesco sul Monte della Verna nel 1224, visione che precede la comparsa delle stigmate, all’interno di opere come la diciannovesima delle ventotto scene che compongono il ciclo detto Storie di San Francesco di Giotto, dipinto, si presume, nel decennio ultimo del XIII secolo, lungo le navate della Basilica superiore di Assisi.

”Allorché dimorava nel romitorio che dal nome del luogo è chiamato «Verna», due anni prima della sua morte, ebbe da Dio una visione. Gli apparve un uomo, in forma di Serafino, con le ali, librato sopra di lui, con le mani distese ed i piedi uniti, confitto ad una croce. Due ali si prolungavano sopra il capo, due si dispiegavano per volare e due coprivano tutto il corpo.4” Da Vita prima S. Fancisci (1228 – 1229)

 Il soggetto, essendo peraltro il Santo di Assisi uno dei più rappresentati del XIII secolo, diviene ben presto motivo iconografico: è già del 1235 la tavola di Bonaventura Berlinghieri, San Francesco e storie della sua vita, che fonde l’aspetto ieratico del sacro all’intento agiografico, proponendoci un San Francesco di stile bizantino nel mezzo e, ai lati, episodi di carattere biografico, fra cui quello che narra la comparsa delle stigmate. Qui, manca il simbolo della croce abbinato al serafino, il quale appare quasi completamente avvolto dalle sue sei ali, e non sono ancora stati inseriti i raggi che già nell’opera di Giotto vedremo scaturire dalle mani e dai piedi di quest’essere fiammeggiante per perforare le mani e i piedi del Santo, inginocchiato al suo cospetto.

 Eccolo poi, come premesso, vicenda e schema ripresentarsi nel Polittico di Valle Romita di Gentile da Fabriano (datazione incerta), nel Polittico di Santa Maria delle Grazie (San Francesco riceve le stigmate), cui Vincenzo Foppa si dedica fra il 1500 ed il 1510, nella cappella Guglielma nella chiesa di Santa Trinita a Firenze (dove Domenico Ghirlandaio realizza le sue Storie di San Francesco d´Assisi), fra gli affreschi nella chiesa di San Pietro in Vineis ad Anagni, in una miniatura di Cosme Tura su di una pergamena oggi custodita presso la National Gallery di Washington.

 A porgere l’accento sulla luce e sul calore emanati da quelle ali è San Bonaventura da Bagnoregio

”… mentre pregava sul fianco del monte, vide la figura come di un serafino, con sei ali tanto luminose quanto infuocate, discendere dalla sublimità dei cieli (…) Due ali si alzavano sopra il suo capo, due si stendevano a volare e due velavano tutto il corpo5

Alle stesse, questi attribuisce un significato ben preciso: sono i sei gradi dell’illuminazione, alla quale non si potrebbe non accedere se non per mezzo di un ardentissimo amore del crocifisso.

 Sono infatti, le ali, un segno divenuto distintivo di una natura angelica o demoniaca. Divenuto, si, perché nella Bibbia non si fa menzione di messaggeri alati; in essa, eccezion fatta per cherubini e Serafini, non di rado appaiono infatti sotto sembianze umane. L’aspetto efebico e gentile, le ali stesse che queste creature sfoggiano nel credo e nell’immaginario collettivo, sarebbero frutto di contaminazioni pagane e culmine di un processo iniziato fra il IV e il V secolo. Come scrive la storica dell’arte Federica Pirani: ”Si guardò, ovviamente, prima di tutto e ancora una volta, all’universo della Bibbia dove sono descritti come alati sia i cherubini che i Serafini (…) Anche la cultura classica contemporanea rappresentava un ricchissimo serbatoio di figure con ali come simbolo di velocità (Hermes o il Kairos), di spiriti alati latori di messaggi fra il cielo e la terra, tra i vivi e i morti, di fanciulle con ali di farfalla come Psiche6”.

Si è oggi quasi concordi nell’affermare che l’antenato più prossimo degli angeli, iconograficamente parlando, sia la Vittoria alata, Nike, presente su monumenti e monete, fra i cui attributi figuravano appunto le ali e la palma (entrata a far parte, anche quest’ultima, del repertorio simbolico cristiano). Vittoria che sarà quella della vita sulla morte, della Fede vera, del vero Dio. Maestosa, regale, immagine perfetta da associare all’autorità divina e imperiale, manifestazione e magnificazione di potere con valore e dignità anche spirituali. Le sei ali attribuite ai Serafini non possono pertanto non contribuire a una visione ”aumentata” di quella potenza, di quella elevazione che simboleggiano e di cui sono emanazione.

 Sono certamente Serafini le creature angeliche nella fascia superiore dell’arco absidale del Duomo di Monreale Palermo; in numero di due, spiccano nel mezzo le parole Sanctus Sanctus Sanctus. Di entrambi sono visibili i piedi, ma, mentre quello a sinistra nasconde con le ali il volto, l´’altro si rivela a chi guarda nella forma di tetramorfo, il tutto su uno sfondo dorato proprio dello stile bizantino. Stile di cui anche i mosaici del Duomo di Cefalù, databili verso la metà del XIII secolo, forniscono prezioso esempio; da ognuna delle quattro vele della volta a crociera, un Serafino ricambia lo sguardo dell’osservatore, esibendo ali dorate, poi bianche, poi più scure alle estremità, che non occultano stavolta né volto né mani. Abbiamo qui una caratteristica molto evidente, non esattamente rara ma che non trova riscontro nei testi, ovvero la moltitudine di occhi di cui queste ali ci appaiono costellate. Tale aggiunta non è comune ma neanche la si potrebbe definire rara e il più delle volte è all’origine di confusione fra Serafini e Cherubini. Questi sono infatti descritti nel Libro di Ezechiele come dotati di quattro ali, quattro teste (tetramorfo) e con corpo, ali, mani e dorso cosparsi di occhi la cui presenza rimanda probabilmente alla conoscenza, ”perfetta” se parliamo di quella loro ascritta di Dio e delle cose divine, e al ruolo di protettori del Trono di Dio, della Porta del Paradiso e dell’Arca dell’Alleanza. Sebbene dal punto di vista teologico esista fra le due schiere una netta distinzione, nell’arte può non ritrovarsi di ciò un chiaro riscontro; si vedano ad esempio gli affreschi, di autore ignoto, realizzati nel 1537 presso il Monastero ortodosso di Moldovița in Romania, o ancora quelli, sempre anonimi, usati come decorazione per l’abside della chiesa romanica di Santa Eularia d’Estaon, in Catalogna, risalenti al XII secolo.

Affresco, Monastero di Moldavița (Romania)

Scuola catalana, Serafino purifica le labbra di Isaia, sec. XII

Affresco, Santa Eularia d’Estaon

 Neanche in epoca moderna gli artisti hanno rinunciato ad accogliere nelle proprie opere i Serafini. Nel 1968, Marc Chagall ne conservò l’aspetto canonico nell’illustrare il momento in cui l’angelo rosso purifica le labbra del profeta con un carbone e un Serafino sembrerebbe pure quello che precipita nell’opera realizzata fra il ’23 e il ’47 e oggi al Basilea Kunstmuseum, La caduta dell’angelo. In esso, il disastro assume una dimensione cosmica, gli eventi di quegli anni irrompono su tela per mezzo di colori e figure: mentre i primi si scuriscono e si prestano a un contrasto lacerante tra il nero, il blu e il rosso prepotente dell’angelo, fra le seconde non si possono non citare l’asino atterrito, il rabbino che fugge portando con sé la Torah, la Madonna con Bambino e il Cristo crocefisso, l’orologio a pendolo e la città di Vitebsk, dove Chagall era nato. Domina il caos, attenuato solo dalla presenza della Vergine e di una candela accesa, unico barlume di speranza, espressione di misericordia, mentre il tempo e lo spazio si cristalizzano e si annullano, mentre l’angelo più vicino a Dio si muta in creatura infernale.

 Anselm Kiefer, fra i massimi esponenti del Neoespressionismo, attinge a piene mani dalla tradizione cabalistica e biblica, intitolando Seraphim un’opera del 1984. Un serpente giace ai piedi di una scala posta in verticale, una scala munita di sei ali. Se immediata risulta l’associazione alla Scala di Giacobbe altrettanto immediata è la sensazione di trovarsi di fronte ad un ossimoro: le tinte cupe, i materiali stessi di cui si è avvalso l’artista simboleggiano la sofferta accettazione del mondo materiale, il richiamo al Serafino e la scala, la verticalità in cui si sviluppa l’immagine, sono espressione della parte spirituale dell’uomo, la quale per natura tende sempre verso l’alto. L’illustratore Howad David Johnson, noto per lo stile fotorealista e i temi religiosi e mitologici, opta invece per una rappresentazione meno ambigua. In Isaiah and the Seraph, il profeta  siede a mani giunte in un angolo e tutta l’attenzione si focalizza sull’angelo, quasi accecante nel suo abito bianco, con le sue sei ali bianche, la luce bianca che emana. Il messaggero ha le sembianze di un giovane dalla capigliatura dorata, ha una posa rilassata che esprime forza e benevolenza e regge, usando una tenaglia, il già menzionato carbone ardente. Erica Flannes, divenuta celebre per le sue abilità di tatuatrice, con tecniche miste realizza il suo Seraphim rappresentando il soggetto come esile e austero, vestito di nero e con sei lunghe mani, una delle quali nell’atto di benedire; attorno alla testa, le sei ali sono piene di occhi e un unico grande occhio sta pure posizionato in corrispondenza della fronte di forma piramidale, conferendo all’angelo, di conseguenza, tratti meno umani. Resta tuttavia una creatura associata alla luce, come suggerisce il disco attorno al suo capo circondato da raggi dorati, che accostati ai capelli color argento creano con essi un senso di astrazione, unità e nobiltà.

 Non c’è da meravigliarsi, inoltre, se i Serafini hanno conosciuto anche in ambito musicale discreto successo, essendo cantori, essendo coloro che intonano le lodi al Signore. Compaiono su antiche partiture, compaiono in brani di oratori. Compaiono nel Mottetto per tre tenori e basso continuo, l’evocativo Duo Seraphim,del Vespro della Beata Vergine di Claudio Monteverdi (1610) e l’aria per soprano Let the Bright Seraphim dal Samson di Handel, solo per citare i più noti. Né ci sarebbe da meravigliarsi che esseri così intrinsecamente legati al fuoco e al divino, così prossimi alla perfezione stessa, possano vantare una propria storia iconografica, forse non ricca quanto quella di cui possono dire di godere i comuni angeli, gli Arcangeli e i Cherubini, ma meritevole certamente di menzione.

  1. http://www.documentacatholicaomnia.eu/03d/1225-1274,_Thomas_Aquinas,_Summa_Theologiae_Pars_Prima,_IT.pdf
  2. Dalla sequenza del Dies Irae, attribuita a Tommaso da Celano (Celano, 1185 – Tagliacozzo, 1260).
  3. Il nome stesso deriva dall’ebraico seraf, ”bruciare”, ”fiammeggiare”. Letteralmente, essi sono coloro che ardono, coloro che bruciano.
  4. Da Vita prima S. Francisci (1228 – 1229).
  5. Dalla Legenda Maior (1263).
  6. AA.VV., Aurea Roma. Dalla città pagana alla città cristiana, <<L’Erma>> di Bretschneider, Roma, 2000, p.393.

ELEONORA PARADISI MICONI

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