Pandemia: banco di prova per la democratura di Antoine Fratini
“Non esistono cose o fatti, ma solo interpretazioni di cose o fatti”
(Nietzsche, La volontà di potenza)
Se dovessimo essere così ingenui da seguire alla lettera la mediasfera mainstream, piomberemmo in un mondo schizomorfico dove tutte le cose sono ultra divise, con la verità da una parte e ovviamente le non verità dall’altra. Uno dei tanti insegnamenti di questa pandemia, di cui nessuno nega più l’esistenza, sta nel fatto che la scienza non è univoca ma, come la critica postmoderna ha abbondantemente sottolineato, irrimediabilmente vincolata al fattore soggettivo e ai limiti euristici di modelli che non possono cogliere realtà nella sua infinita complessità, ma solo interpretarla. Mai come in questa drammatica occasione la comunità scientifica è apparsa così divisa in tante voci diverse e contrastanti. Come abbiamo visto molto chiaramente a cominciare per esempio dall’inaffidabilità dei test, passando dall’indice di contagiosità generalmente taciuto per arrivare al numero di morte per covid confusi con quelli con covid, tutti i “dati” emessi da esperti e istituti sarebbero da interpretare, mentre invece vengono costantemente spacciati per oggettivi dai telegiornali il cui format sembra essere l’unica cosa che non muta in un mondo in perenne e sempre più rapido movimento. Questo succede quando si arriva a nutrire una fede incrollabile, univoca ed assoluta nella quantificazione, nelle cifre. In realtà, quel ragionare coi numeri che tiranneggia la nostra cultura e la nostra psicologia ormai da molti secoli è solo un possibile tipo di approccio alla conoscenza. Esso andrebbe completato da altri, in particolare modo da quello empirico e da quello animico[1]. Altrimenti arriveremo ad un punto in cui “per la scienza” ci verrà proibito riferirci al senso comune e alla percezione. Alcuni grandi pensatori della postmodernità, come per esempio il sociologo Michel Maffesoli[2] o ancora l’epistemologa argentina Ana Maria Llamazares, hanno richiamato efficacemente l’attenzione sul pericoloso squilibrio provocato dalla tirannia dei numeri e del scientismo. Io stesso, ho sostenuto per esempio che il moderno “calcola” anche per affrontare questioni del tutto avverse ai numeri. Una persona che venne da me per iniziare un’analisi mi disse di avere svolto prima alcune sedute da una psicoterapeuta che le suggerì una sorta di esercizio onde risolvere il suo dilemma sentimentale: scrivere tutte le qualità e i difetti delle due persone a cui si era legato sentimentalmente, dare un voto da 0 a 10 a ciascuna voce, poi tirare le somme e scegliere il “vincitore”. Naturalmente, la cosa non funzionò e il paziente ne uscì piuttosto frustrato. Proprio per questa impostazione di base la psicologia è ben lontana dal potersi definire scientifica.
La scienza moderna ha rinunciato già da oltre un secolo, non senza diatribe è vero, al suo passato statuto di oggettività. La scienza fornisce una certa visione della realtà, ne suscita le risposte tramite una certa maniera di interrogarla. E anche volendo aderire totalmente ai suoi postulati, essa non va oltre l’approssimazione e la verità statistica. Parafrasando Nietzsche, “la” scienza, quella positivista/scientista, quella di quark per parlare volgarmente, è morta. E quando la si vuole resuscitare, facendola passare per verità assoluta, allora diventa potere. Un potere enormemente influente in quanto riesce ad immobilizzare il pensiero e a tappare la bocca a milioni di persone, a legittimare azioni politiche liberticide che possono piano piano portarci verso uno scenario di cui non saprei trovare parola migliore del neologismo “democratura”: un mondo apparentemente perfetto, una dittatura camuffata da democrazia dove, grazie ad un diabolico intreccio tra potere scientifico/tecnologico, potere mediatico e politica le persone sono spinte ad accettare regole incostituzionali, a sostituire la riflessione con la credenza e ad eseguire ordini senza avvedersene. Una società alla Huxley dove l’istinto ribelle rimane solo un lontano ricordo e l’inconscio, motore di ogni vero progresso, è soffocato sul nascere.
A giudicare dell’incostituzionalità delle disposizioni che molti governi, approfittando della pandemia, impongono ai cittadini impauriti da una informazione terroristica, sembra che le prove per la democratura siano già iniziate. A quanto pare le Costituzioni, abitualmente così declamate e quasi sacralizzate dal ceto politico, diventano degli optional in certe circostanze. Un presidente del Consiglio che si permette di impartire lezioni su come i cittadini si devono comportare in famiglia per Natale non si era effettivamente mai visto. Occorre stare molto attenti perché quando ogni voce critica rispetto a un dramma come questa pandemia verrà catalogata come negazionista o/e complottista, allora rimarrà una unica voce e una unica realtà. Il cerchio si chiuderà e non ci sarà più modo di uscirne. Un governo può suggerire alle persone di stare a casa onde evitare i contagi, ma non può obbligarle. Nemmeno dichiarando la stato di emergenza. La pandemia, nonostante quel che i collaborazionisti (consapevoli o ignari che siano) amano ripetere, non è una guerra. Non è nemmeno riconducibile a calamità strettamente naturali o provocate dall’uomo. Nessuna legge nella fattispecie giustifica l’adozione dello stato di emergenza per rischi sanitari. Pertanto, il lockdown è illegittimo. Come ho denunciato altrove, qui il problema non è il virus, ma bensì l’inadeguatezza di un sistema sanitario che da decenni viene disinvestito perché erroneamente collocato nel capitolo delle spese.
Pertanto, tornando all’eminente filosofo tedesco già citato: non vi sono informazioni, ma solo interpretazioni. Per l’intelletto, la cosa non desta nessun problema, anzi. Semmai il problema ricade su chi fa leva sulla credenza nella purezza dell’informazione e nell’oggettività dei dati per manipolare le coscienze.
[1] Vedi il mio Psiche e Natura, Zephyro 2012.
[2] M. Maffesoli, La connaissance ordinaire, Klincksieck 1985, e A.M. Llamazares, Del reloj a la flor de loto, Del nuovo extremo 2013.